Caduta della cliente del ristorante, D.Lgs. n. 81/08 responsabilità del gestore

Cassazione Penale n. 14196 del 15 aprile 2021 – Caduta della cliente del ristorante inciampata su una rete da pesca tra i tavoli. Art. 299 del D.Lgs. n. 81 del 2008 e responsabilità del gestore di fatto.

 

1. Con sentenza del 19/3/2019, il Tribunale di Taranto, in composizione monocratica, quale giudice di appello, confermava la sentenza con cui in data 15/11/2017 il Giudice di Pace di M. aveva condannato R.P.C. alla pena di euro 600 di multa (oltre al pagamento delle spese processuali e di quelle di costituzione e lite sopportate dalla parte civile nonché al risarcimento del danno morale nei confronti della parte civile costituita per euro 400 e al danno materiale da liquidare in separata sede), in quanto ritenutolo colpevole del reato di cui all’art. 590 cod. pen. poiché, in qualità di gestore del ristorante “Z.”, per colpa generica, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, lasciando, ovvero consentendo che altri lasciassero, per terra, tra i tavoli una rete da pesca, così omettendo di adottare le cautele necessarie per preservare l’incolumità dei clienti, cagionava a L.S. – la quale inciampava sulla predetta rete e cadeva rovinosamente al suolo – lesioni personali, consistite in “frattura articolare scomposta del capitello radiale destro” con prognosi di giorni 30″. In M., il 1/11/2013.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, Omissis, deducendo, qual unico motivo di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. l’erronea applicazione dell’art. 590 cod. pen. con riferimento alla corretta individuazione del soggetto attivo del reato colposo in una società in accomandita semplice e vizio di motivazione in punto di ritenuta responsabilità.
La tesi che si sostiene in ricorso è che il giudice di appello abbia individuato erroneamente il soggetto responsabile del reato nel presunto gestore di fatto dell’attività di ristorazione della società in questione, motivando detto assunto sulla base della sola dichiarazione resa da R.G., non in epoca coeva ai fatti di causa, ma risalente al lontano 26/8/2011. Ciò che starebbe già a significare l’inattualità della remota dichiarazione che non potrebbe avere effetto estensivo probatorio fino alla data del commesso fatta del presente processo.
D’ altronde, prosegue il ricorso, se per il giudice di appello è risultato sufficiente per la conferma della sentenza di condanna la dichiarazione di R.G. contenuta a pag. 2 della sentenza prodotta dalla difesa n. 1089/2014, non sarebbe dato comprendere il motivo per cui, in sede di gravame, sempre lo stesso giudice, avrebbe completamente disatteso l’auto-assunzione di responsabilità della medesima R.G. manifestata per iscritto con la sottoscrizione – in calce unitamente al difensore- della nota, agli atti del processo, del 7/3/2014 a firma dell’ Avvocato G. P. e di R.G., quale rappresentante legale della “Z.”, peraltro, presente in loco al tempo del commesso reato, come confermato dalle lettere indirizzate a R.G. – in atti- dal difensore di controparte del 24.1.2014 e 19.12.2013 nonché dai testi del P.M. e P.C. che non hanno escluso, oltre ogni ragionevole dubbio, una responsabilità della sola e unica socia accomandataria.
Il ricorrente evidenzia, peraltro, che la quaestio iuris sottoposta all’esame di questa Corte di legittimità -corretta individuazione del soggetto attivo- è stata già affrontata e risolta dal Giudice monocratico del Tribunale di Taranto che, con sentenza n. 1089/2014 (il richiamo è a pag. 3 della sentenza prodotta dalla difesa) accoglieva il principio secondo cui non vi era alcun dubbio circa la penale responsabilità della R.G.. Tanto perché era assolutamente irrilevante la cir­ costanza che la gestione di fatto dell’attività di ristorazione compete a R.P.C. , padre di R.G., atteso che quest’ultima in qualità di datrice di lavoro ed in assenza di apposita delega, è in ogni caso tenuta all’osservanza delle norme prevenzionali (il richiamo è a Sez. 4 n. 39158 del 18.1.2013)
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
3. In data 26/2/2021 ha reso le proprie conclusioni scritte il P.G. presso questa Corte che ha chiesto annullarsi con rinvio la sentenza impugnata.
In data 10/3/2021 ha reso le proprie conclusioni l’Avv. Anna Filomena B. per la costituita parte civile L.S., che ha chiesto il rigetto del ricorso, con risarcimento del danno e rifusione di spese, come da nota allegata.

Diritto

1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

2. Appare fuori discussione che, in casi come quello che ci occupa, la responsabilità dell’amministratore della società, in ragione della posizione di garanzia assegnatagli dall’ordinamento, non viene meno per il fatto che il ruolo rivestito sia meramente apparente (Sez. 4, n. 49732 del 11/11/2014, Canigiani, Rv. 261181).
E’ altrettanto vero, tuttavia, che tale posizione di garanzia si affianca, e non si sostituisce a quella del titolare apparente.
In tema di reati omissivi colposi, infatti, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, purché l’agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva presa in carico del bene protetto (Sez. 4, n. 39261 del 18/04/2019, Cairo Rv. 277193; Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019, Piccioni, Rv. 277629; Sez. 4, n. 28316 del 29/09/2020, Zanon, Rv. 280080).
Questa Corte ha chiarito che, in tema di infortuni sul lavoro, la previsione di cui all’art. 299 D.Lgs. n. 81 del 2008(rubricata esercizio di fatto di poteri direttivi) per la quale le posizioni di garanzia gravano altresì su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale. Ne deriva che la codificazione della c.d. ‘clausola di equivalenza avvenuta con il predetto D.Lgs. n. 81 del 2008 non ha introdotto alcuna modifica in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità penale concernente il datore di lavoro di fatto, i quali sono, pertanto, applicabili ai fatti precedenti all’introduzione dell’art. 299 D.Lgs. n. 81 del 2008, senza che ciò comporti alcuna violazione del principio di irretroattività della norma penale (Sez. 4, n. 10704 del 7/2/2012, Corsi, Rv. 252676).
3. Ebbene, se questi sono i principi giuridici di riferimento, il giudice del gravame del merito appare averne fatto buon governo.
Trattandosi di doppia conforme affermazione di responsabilità, la sentenza impugnata va valutata in un tutt’uno con quella di primo grado e, in quest’ultima, la titolarità di fatto della posizione di garanzia in capo all’odierno ricorrente – diversamente da quanto si afferma nell’odierno ricorso e nell’atto di appello, ove si assume che la stessa derivi solo dalla dichiarazione del 2011 della figlia dell’imputato- emerge anche dalla testimonianza del M.llo E. dei Carabinieri di M., il quale ha riferito che R.P.C. era il gestore di fatto del ristorante, a gestione familiare, ed era sempre presente all’interno dello stesso.
Tale prova non viene in alcun modo disarticolata né dai motivi di appello (cfr. atto di appello del 20/2/2018) che nemmeno ipotizza motivi per cui il pubblico ufficiale possa avere dichiarato il falso, e nemmeno dall’odierno ricorso.
E la sentenza del 2014 a carico di R.G., al di là del fatto che si riferisce a fatti dell’agosto 2011, altro non prova che l’incontestata titolarità formale dell’attività in capo alla figlia dell’odierno ricorrente, che anche in quell’occasione (cfr. pag. 2) riferì che, di fatto, il ristorante lo gestiva il padre, perché lei ed il marito gestivano un altro locale in Taranto e a M. si recava saltuariamente, soprattutto la domenica o durante le ferie.

4. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile costituita in questo processo di legittimità nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile L.S. in questo giudizio di legittimità, che liquida in euro tremila oltre accessori come per legge. Fonte: CassazioneWeb

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