Caduta lavoratrice da una scala inadatta al lavoro
Cassazione Penale, sentenza n. 11087 del 23 marzo 2021 – Caduta della lavoratrice da una scala inadatta al lavoro da svolgere.
La Corte di appello di Venezia il 4 marzo 2019 ha integralmente confermato la sentenza, appellata dall’imputato, con la quale il Tribunale di Vicenza il 12 marzo 2018, all’esito del dibattimento, ha riconosciuto N.M. responsabile del delitto di lesioni colpose nei confronti di V.M., con violazione della disciplina antinfortunistica, fatto commesso l’8 novembre 2014, e delle contravvenzioni previste dall’art. 71, comma 1, in relazione all’art. 87, comma 2, lett. c), del D. lgs. 9 aprile 2008, n. 81, cioè per avere fornito alla dipendente V.M. una scala inadatta al lavoro da svolgere in altezza sia perché, a causa della presenza di due gradini all’ingresso del locale, la scala poteva essere usata solo lateralmente e non frontalmente, quindi con rischio di sbandamento, sia perché troppo bassa sia perché priva di due piedini “antiscivolo” su quattro e, dunque, instabile, e dal combinato disposto degli artt. 28, comma 2, lett. d), e 17, comma 1, lett. a), del D.lgs. n. 81 del 2008, in relazione all’art. 55, comma 3·, del medesimo testo normativo, per non avere adeguatamente valutato nel documento di valutazione del rischio quello da caduta dall’alto dalla scala, classificato solo come “modesto”, e non avere individuato misure adeguate per eliminare o ridurre tale rischio, fatti commessi in data successiva al 31 agosto 2015 (ergo: il 1° settembre 2015), in conseguenza condannando l’imputato, senza circostanze attenuanti, alla pena detentiva, per il primo reato, ed alle sanzioni pecuniarie, per gli ulteriori, oltre al risarcimento dei danni alla parte civile, da liquidarsi in separata sede; pene condizionalmente sospese.
Il fatto, in sintesi, come ricostruito concordemente dai giudici di merito.
Avendo N.M., in qualità di titolare dell’impresa individuale “Bar trattoria pizzeria B. assunto quale dipendente con mansioni di addetta alle pulizie interne la sig.ra V. M., la stessa, nel corso del primo giorno di lavoro, l’8 novembre 2014, è caduta da una scala doppia mediante la quale doveva raggiungere, per pulirle, travi site all’altezza di 3,34 metri nel disimpegno tra la porta d’accesso ed i locali interni del ristorante, procurandosi fratture causative della impossibilità di attendere alle ordinarie occupazioni per più di quaranta giorni e postumi permanenti:
L’istruttoria dibattimentale ha dimostrato, secondo i giudici di merito, che la persona offesa era al suo primo giorno di lavoro, che è stato l’imputato a dirle che doveva pulire le travi, che, per fare ciò, la donna ha utilizzato l’unica scala presente nell’ambiente di lavoro, che tale scala, alta nello scalino superiore 130 centimetri, seppure conforme alla normativa “uni en 13”, era però priva di due dei quattro piedini antiscivolo, che, attesa l’altezza della lavoratrice – 154 centimetri – mettendosi in piedi sull’ultimo gradino (alto 130 centimetri) la distensione totale verso l’alto almeno di un braccio verso le travi, site a 334 centimetri da terra, avrebbe sicuramente provocato un inevitabile sbilanciamento del corpo e, quindi, della scala, che era già instabile, per le ragioni dette; peraltro, attesa la conformazione dell’ingresso del locale e, in particolare, la presenza di gradini, la scala non poteva che essere usata lateralmente, anziché frontalmente, con rischio di sbandamento.
Si è ritenuto il datore di lavoro, nella relativa posizione di garanzia, responsabile per avere fornito alla lavoratrice una scala inadeguata, per le ragioni esposte, anziché una adatta, più alta e più stabile, ovvero una scopa ad asta che consentisse di lavorare con i piedi a terra, per non essersi disfatto della scala ovvero per non avere segregato la stessa, che era inidonea e pericolosa, lasciandola invece nello sgabuzzino insieme agli attrezzi e ai prodotti per pulire, a disposizione di tutto il personale, e per non avere in alcun modo formato/informato la dipendente; per non avere preventivamente valutato in maniera adeguata il rischio nel documento di valutazione del rischio; e per non avere avuto cura di sovrintendere, personalmente o mediante delegato esperto, al primo giorno di lavoro della neo-assunta.
Non avendo l’imputato ottemperato alle prescrizioni degli ispettori del servizio prevenzione, igiene e sicurezza ambienti di lavoro della A.s.l., si è ritenuta sussistente la penale responsabilità per gli illeciti contravvenzionali.
Si è esclusa l’abnormità nella condotta della lavoratrice e si è ritenuto che, anche volendo imputare alla donna la scelta di appoggiare la scala lateralmente, anziché frontalmente, la dipendente comunque non aveva ricevuto alcuna formazione.
Ricorre per la cassazione della sentenza l’imputato, tramite difensore di fiducia, affidandosi a tre motivi, con i quali denunzia violazione di legge (tutti e tre i motivi) e difetto di motivazione (il secondo ed il terzo).
Con il primo motivo, in particolare, lamenta la violazione degli artt. 181, 557, 552, comma 1, lett. e), e comma 2, cod. proc. pen. per avere la Corte di appello disatteso la questione, già posta alla prima udienza (il 5 dicembre 2017) e con l’atto di appello, della reiezione – che si stima illegittima – con ordinanza del Tribunale del 9 gennaio 2018 della eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio ordinario, anziché immediato, dopo che l’imputato aveva presentato rituale opposizione a decreto pena di condanna.
Si assume che, essendo il reato di competenza del giudice monocratico ed a citazione diretta, senza udienza preliminare (art. 557 cod. proc. pen.), a seguito dell’opposizione a decreto penale di condanna si sarebbe dovuto emettere decreto di citazione a giudizio “ordinario”, che, tra l’altro, contiene l’indicazione (alla lett. e del comma 2 dell’art. 552 cod. proc. pen.) della facoltà di nomina di difensore di fiducia, avviso la cui mancanza comporta la nullità del decreto medesimo (art. 552, comma 2, cod. proc. pen.); invece si è – si stima illegittimamente – emesso decreto di citazione per il giudizio immediato.
La motivazione della Corte di appello sarebbe erronea, richiamando peraltro precedente di legittimità che il ricorrente stima non pertinente, oltre che errato nella citazione della data di udienza.
La nullità del decreto di citazione determinerebbe la nullità delle sentenze.
Mediante l’ulteriore motivo N.M. si duole della ritenuta errata applicazione della legge penale e della illogicità della motivazione per contrasto con gli atti di causa in relazione alla ritenuta responsabilità penale.
La sentenza sarebbe illogica non considerando, ad avviso del ricorrente, né le immagini del filmato prodotto dall’imputato né il contenuto delle dichiarazioni di alcuni testimoni (Omissis) e dell’esame dell’imputato. La dinamica dell’incidente che si osserva nel filmato prodotto dalla difesa sarebbe diversa da quella ritenuta in sentenza. Si precisa che il filmato prodotto dalla difesa mostrerebbe una dinamica degli accadimenti diversa da quella narrata dalla parte civile. La Corte di appello avrebbe errato nel rigettare la richiesta di perizia richiamando le prove confluite in atti, tra le quali il filmato.
La deposizione dei testi ispettori S.p.i.s.a.l., peraltro intervenuti mesi dopo l’incidente, sarebbero confuse ed imprecise e le valutazioni conclusive operate dagli stessi, contenute nei verbali di contestazioni e prescrizioni ed illustrate in udienza, sarebbero non condivisibili.
In definitiva, la sentenza si baserebbe solo sulla versione della vittima, interessata, siccome costituita parte civile, che, invece, sarebbe non credibile su più circostanze; essa sarebbe, tra l’altro, smentita dalla visione del filmato.
La persona offesa, diversamente da quanto dalla stessa affermato, non sarebbe stata adibita quella mattina alla mansione di pulire le travi in alto; la stessa, comunque, avrebbe avuto a disposizione uno strumento telescopico, come affermato dall’imputato nel corso del suo esame; la scala, in realtà , non era a disposizione dei dipendenti ma solo ed esclusivamente del datore di lavoro. La Corte territoriale non motiverebbe sulle doglianze svolte in appello, non risolverebbe il denunziato contrasto con gli atti di causa e non valuterebbe né le
deposizioni dei fratelli dell’imputato né le parole dell’imputato né il filmato.
Con l’ultimo motivo censura la ritenuta errata applicazione della legge penale e la illogicità della motivazione per contrasto con gli atti di causa in relazione alla mancata concessione delle richieste attenuanti generiche.
Richiamati gli elementi già illustrati in appello e che avrebbero dovuto condurre – si ritiene – al riconoscimento delle attenuanti generiche, si censura il diniego esaminando partitamente le quattro ragioni ritenute ostativa dalla Corte territoriale:
quanto all’assenza di offerta risarcitoria, si sottolinea che, come sarebbe emerso a dibattimento, l’imputato si sarebbe prodigato per invitare l’assicurazione a trovare un accordo;
in relazione alla gravità del danno, assume la difesa dell’imputato (p. 9 del ricorso), che «della gravità del danno nulla si sa, tanto che. non è stato quantificato e non è stata concessa provvisionale in primo grado – punto non impugnato dalla parte civile e non modificato in appello»;
quanto all’avere atteso la conclusione dell’istruttoria per produrre un filmato che sarebbe a sé favorevole, si precisa che non è stato prodotto alla fine dell’istruttoria ma nel corso dell’esame dell’imputato, che ha spiegato il perché;
infine, quanto al non avere ottemperato alle prescrizioni S.p.i.s.a.l., si tratta, a ben vedere, di elemento costitutivo dei reati contravvenzionali e, pertanto, non potrebbe essere valutato due volte in danno dell’imputato.
Si chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
Il processo, originalmente fissato alla pubblica udienza del 20 marzo 2020, è stato differito per la nota emergenza sanitaria.
Con memoria pervenuta il 4 marzo 2020 il difensore della parte civile ha motivatamente chiesto il rigetto del ricorso dell’imputato.
Il difensore dell’imputato con nota del 19 novembre 2020 ha chiesto, ai sensi dell’art. 23, comma 8, prima parte, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, la trattazione orale del processo.
Premesso che i reati non sono prescritti (occorre infatti aggiungere alle date del 1° settembre 2020 cinque anni a far data dal 1° settembre 2015 – quanto alle contravvenzioni – e dell’8 maggio 2022 sette anni e mezzo dall’8 novembre 2014 – per il delitto – 184 giorni in ragione della astensione della difesa dall’udienza in primo grado, con rinvio dal 20 marzo 2017 al 20 settembre 2017), il ricorso è infondato e deve essere rigettato, per le seguenti ragioni.
Quanto al primo motivo (denunziata nullità in ragione della emissione di decreto di citazione a giudizio con il rito immediato, anziché ordinario, dopo opposizione a decreto penale), si osserva che la questione proposta reitera il contenuto dell’eccezione che si legge alle pp. 4-5 dell’atto di appello e che era stata sollevata all’udienza del 5 dicembre 2017 (come risulta dal relativo verbale) e rigettata il 9 gennaio 2018.
Nel presentare opposizione – in data 14 luglio 2016 – al decreto penale di condanna per le due contravvenzioni penali dell’11 aprile 2016, l’imputato ha chiesto il giudizio ordinario.
Il susseguente decreto emesso dal P.M. il 30 settembre 2016 ha citato l’imputato – in relazione alle due contravvenzioni – per l’udienza del 5 dicembre 2017 nelle forme dell’immediato.
La Corte di merito ha risolto negativamente la questione con la motivazione che si legge alle pp. 4-5 della sentenza impugnata, ossia per i seguenti tre motivi:
I) aderendo all’insegnamento che si trae dal precedente di legittimità di Sez. 4, n. 1027 del 20/10/2002, rie. Botta, Rv. 223708 (secondo cui «Qualora l’imputato, nell’atto di opposizione al decreto penale di condanna, presenti un’istanza non contemplata dalla legge (nella specie di giudizio ordinario), questa deve equipararsi alla mancata formulazione di qualsiasi specifica richiesta, con la conseguenza che il giudice deve comunque emettere il decreto che dispone il giudizio immediato»);
II) inoltre, perché l’avviso circa la facoltà di nominare un difensore di fiducia risulta essere stato dato all’imputato nel corpo del decreto penale di condanna (in effetti, così risultando alla p. 2 del decreto di condanna);
III) infine, perché comunque l’atto ha raggiunto il suo scopo, atteso che l’imputato ha tempestivamente esercitato la facoltà (di nominare difensore di fiducia) del cui mancato avviso si duole.
Ciò posto, si osserva che dal confronto tra gli artt. 557 e 461 cod. proc. pen. emerge che nei procedimenti a citazione diretta l’imputato destinatario di decreto penale di condanna può chiedere il decreto di citazione a giudizio ovvero l’abbreviato o il “patteggiamento” o l’oblazione – ai sensi dell’art. 557_, comma 1, cod. proc. pen. e – che nel caso di reati per i quali è prevista l’udienza preliminare può chiedere l’immediato, l’abbreviato o il patteggiamento – ex art. 461, comma 3, cod. proc. pen. – (del resto, «Nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica il giudizio immediato è ammesso solo nei casi in cui sia prevista l’udienza preliminare, cioè quando la “vacatio in ius” non avviene tramite il meccanismo della citazione diretta a giudizio»: Sez. 1, n. 24170 del 31/03/2010, confl. comp. in proc. Seccia, Rv. 247945; in termini, v. già Sez. 4, n. 7295 del 16/01/2004, P.M. in proc. Bellin, Rv. 227834).
Ebbene, trattandosi di contravvenzioni, dopo l’opposizione (con richiesta di giudizio ordinario) si sarebbe dovuta disporre la citazione diretta a giudizio.
Occorre anche tenere presente che contenutisticamente il decreto di citazione nelle forme del giudizio immediato non contiene l’avviso della facoltà di nominare un difensore di fiducia.
In conseguenza, il richiamo da parte della Corte di appello del precedente di Sez. 4, n. 1027 del 20/10/2002, Botta, Rv. 223708 («Qualora l’imputato, nell’atto di opposizione al decreto penale di condanna, presenti un’istanza non contemplata dalla legge (nella specie di giudizio ordinario), questa deve equipararsi alla mancata formulazione di qualsiasi specifica richiesta, con la conseguenza che il giudice deve comunque emettere il decreto che dispone il giudizio immediato») risulta essere non pertinente; e ciò per una ragione di diritto, non già per un errore di data (come si legge invece alla p. 3 del ricorso).
Occorre, tuttavia, tenere presente quanto segue:
è, comunque, legittimo il decreto di giudizio immediato emesso congiuntamente per reati a citazione diretta connessi ad altri per i quali è prevista l’udienza preliminare (così già Sez. 1, n. 49821 del 10/05/2016, P.G. in proc. Varani ed altri, Rv. 268548; nello stesso senso v. anche Sez. 5, n. 15189 del 14/10/2015, dep. 2016, P.M. in proc. Verdie ed altri, Rv. 266689; Sez. 6, n. 14816 del 10/12/2013, dep. 2014, Scalese, Rv. 258746);
nel caso di specie si è in presenza di una situazione simile a quella testè descritta, poiché i due reati contravvenzionali costituiscono – testualmente – i parametri di colpa specifica si cui è fondato l’addebito di lesioni colpose;
i due fascicoli sono stati riuniti e trattati insieme;
in ogni caso, risulta dirimente il ragionamento svolto per ultimo dai giudici di merito, incentrato sulla sanatoria della nullità per raggiungimento della scopo.
Infatti, l’imputato (in relazione alle due contravvenzioni; della riunione dei due processi si dà atto alla p. 2 della sentenza di primo grado), già avvisato nel corpo del decreto penale della facoltà di nominare difensore di fiducia, lo ha nominato con l’atto di opposizione e l’avvocato di fiducia è stato presente alla prima udienza dibattimentale, tenutasi il 5 dicembre 2017, ove ha svolto le sue difese: sicché è stato raggiunto lo scopo, essendosi, appunto, «la parte […] avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato», ai sensi dell’art. 183, lett. b), cod proc pen.
Occorre nel contempo prendere atto che difetta nel caso di specie un pregiudizio alle prerogative della difesa (come si è puntualizzato da parte di Sez. 1, n. 41930 del 06/07/2016, Bono e altri, Rv. 267799, sia pure resa in un caso differente da quello in esame).
In relazione al secondo motivo di ricorso (con il quale, come si è visto, la difesa sostiene esistere contrasto tra l’affermazione di penale responsabilità ed emergenze istruttorie), osserva il Collegio che non si apprezza quale sia la denunziata violazione di legge e che il motivo si sostanzia, a ben vedere, nella denuncia di un vizio di motivazione pur a fronte di una doppia conforme di merito: in sostanza, il ricorrente aspira ad interpretare le emergenze istruttorie in maniera diversa da come ritenuto dai giudici di merito nel doppio grado con motivazione, tuttavia, che risulta non incongrua né illogica.
Il secondo motivo di ricorso, in definitiva, è meramente assertivo e basato su assunti indimostrati.
Quanto, infine, al terzo motivo (con cui si contesta la mancata concessione delle attenuanti generiche), si rileva che il diniego è sufficientemente e congruamente motivato alla p. 6 della sentenza impugnata, ove si sottolinea la mancanza di segni di presa di distanza rispetto al fatto e di resipiscenza, anche tramite un’offerta risarcitoria (la motivazione è, in sostanza, lo sviluppo logico di quanto già ritenuto alla p. 10 della decisione del Tribunale).
Anche in questo caso, il ricorso si limita a reiterare gli argomenti già spesi alle pp. 11-13 dell’atto di appello e già – non illogicamente – disattesi.
Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità a favore della parte civile costituita V.M., spese che, vista la nota ed alla stregua delle tariffe, si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità a favore della parte civile costituita V.M. che liquida in euro tremila oltre accessori di legge. Fonte; CassazioneWeb