Cassazione penale: caduta struttura metallica, utilizzo di un presidio inadatto al lavoro in quota
Cassazione Penale, sentenza n. 22271 dell’8 giugno 2021 – Caduta dalla struttura metallica durante l’allestimento del negozio. Utilizzo di un presidio inadatto al lavoro in quota e obblighi del responsabile del reparto.
La Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Velletri, appellata da F.F., già condannato per lesioni colpose ai danni di A.F., reato aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, ha assolto il predetto dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste, revocando le statuizioni civili.
2. Questa, in sintesi, la vicenda.
L’infortunio è accaduto all’interno di uno stabilimento della L. M. s.r.l. nel corso delle operazioni di allestimento di una zona di esposizione di prodotti promozionali. L’infortunato si era trovato su una struttura metallica (rack) senza uso del mezzo usualmente utilizzato per la movimentazione dei carichi in quota e ne era caduto procurandosi le lesioni descritte nella imputazione. Al F.F. si era addebitato di avere, nella qualità di responsabile dei reparti di falegnameria e sistemazione dello stabilimento in questione, omesso di sovrintendere e vigilare sulla osservanza delle disposizioni aziendali sull’uso dei mezzi di protezione individuali e collettivi a disposizione (il tutto avveniva in Ciampino il 24/08/2009).
3. La sentenza è stata impugnata con ricorso, limitatamente agli effetti civili, dalla parte civile A.F., con proprio difensore, il quale ha formulato due motivi.
Con il primo, la parte ha dedotto vizio motivazionale e violazione di legge quanto alla valutazione della regola cautelare a presidio dell’area di rischio considerato. In particolare, si è contestata la conclusione dei giudici d’appello, secondo cui nella specie non vi sarebbe stata alcuna norma cautelare specifica, non risultando che per le lavorazioni in altezza fosse precluso ai lavoratori l’utilizzo di comuni scale a libretto, il cui grado di sicurezza non sarebbe stato inferiore a quello degli elevatori. A tal proposito, la difesa ha richiamato le previsioni contenute nel Piano di Sicurezza aziendale redatto ai sensi dell’art. 28 D.lgs. 81/08 e acquisito all’udienza del 8/11/2006, alla luce del quale ha rilevato che l’altezza in cui doveva svolgersi la lavorazione era superiore a quella di sicurezza e che, nella specie, non doveva essere impiegata una semplice scala a libro, bensì una scala a castello o un muletto, strumento che, tuttavia, in quel momento si trovava in un altro reparto.
Quanto all’altezza, la circostanza che la lavorazione doveva effettuarsi a quota superiore ai due metri e mezzo (a fronte di una scala a libro avente un’altezza di due metri) era stata confermata dalle testimonianze acquisite e dagli accertamenti dell’organo ispettivo, così come la temporanea indisponibilità dello strumento a presidio della sicurezza di quel tipo di lavorazione, nonostante il reparto in cui era avvenuto l’infortunio avesse la precedenza nell’uso di esso.
Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto vizio della motivazione quanto al nesso di causalità tra la condotta contestata nella qualità e l’evento, anche con riferimento all’effetto interruttivo ravvisabile nel comportamento del lavoratore infortunato. Il deducente ha, sotto il primo profilo, evidenziato la circostanza che era stato lo stesso F.F. a posizionare sul pianale delle tavole tagliate all’occorrenza per sostituire quelle che si erano rotte, senza fissarle e senza prevedere un riempi tratta; inoltre, egli era consapevole del maggior rischio derivante dal fatto che il piano di lavoro era superiore ai due metri e cinquanta, così come era edotto dell’obbligo di utilizzare il Tucano, in quel momento indisponibile, e della impossibilità di salire oltre il terzo gradino della scala a libro, il che avrebbe posto il piano di lavoro a un’altezza superiore. Ciononostante, egli, quale preposto, aveva omesso di vigilare affinché l’A.F. non eseguisse il lavoro in quelle condizioni rischiose e non aveva neppure predisposto gli strumenti più idonei previsti dal POS.
Quanto al secondo profilo, la vittima, nel momento in cui avvenne l’infortunio, stava eseguendo proprio le direttive impartite dal capo settore F.F. e sotto la sua direzione ed era stato costretto a salire sulla struttura per posizionare la merce senza che gli fosse messo a disposizione l’elevatore, presidio di sicurezza espressamente contemplato nel POS. Pertanto, non poteva parlarsi di un comportamento abnorme di costui, interruttivo del nesso causale e tale da innescare una categoria di rischio eccentrica rispetto a quella determinata dal mancato utilizzo degli strumenti di sicurezza previsti per quel tipo di lavorazione.
3. Il Procuratore generale, in persona del sostituto G. C., ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto annullarsi la sentenza impugnata senza rinvio agli effetti penali, per essere il reato estinto per prescrizione, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, quanto agli effetti civili.
4. Anche la difesa del F.F. ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso della parte civile, con la conseguente conferma del gravato provvedimento.
5. Per la parte civile la difesa ha depositato conclusioni scritte e nota spese.
1. Il ricorso va accolto.
2. La Corte capitolina, dato atto dei motivi di appello formulati nell’interesse del F.F. e del responsabile civile (con i quali, secondo quanto esposto in sentenza, si era sostanzialmente rilevata l’abnormità del comportamento della vittima, la quale sarebbe caduta non per l’inidoneità della scala utilizzata, ma per essere salita sulla scaffalatura in corso di allestimento e dedotta la circostanza che, all’epoca dell’infortunio, il F.F. non sarebbe stato neppure capo settore) ha intanto ritenuto accertata l’attribuzione in capo al F.F. della qualifica di responsabile del reparto.
Ciò posto, quanto alla dinamica dell’infortunio, ha ritenuto provato che, nell’occorso, l’A.F. stava procedendo alla collocazione di merce su apposito rack (espositore), struttura che andava allestita in altezza, utilizzando all’uopo una scala. Il lavoratore era caduto perché aveva perso l’equilibrio a causa del colpo ricevuto in testa per la rottura di una delle tavole provvisoriamente posizionate sul piano di quell’espositore per ovviare alla rottura di quelle preesistenti.
La Corte territoriale, pertanto, alla stregua delle stesse dichiarazioni della persona offesa, ha ritenuto che la caduta non si era verificata perché l’imputato aveva approntato una scala che non raggiungeva l’altezza dovuta per raggiungere l’ultimo ripiano dell’espositore in allestimento, ma perché la vittima aveva improvvidamente messo un piede su un asse precariamente appoggiato su detta scaffalatura, affermando, quanto alla rilevanza del comportamento alternativo lecito, che la caduta sarebbe comunque avvenuta anche se per raggiungere l’espositore fosse stato usato il Tucano invece della scala a libro ordinaria. Peraltro, secondo la Corte di merito, nessun regolamento precludeva l’uso delle scale a libretto per le lavorazioni in altezza, il cui grado di sicurezza non poteva di certo considerarsi inferiore a quello di un elevatore. Lo strumento, peraltro, si trovava in quel momento in un altro reparto, dal quale avrebbe potuto essere agevolmente prelevato.
3. I motivi sono fondati.
La valutazione giudiziale riguardante gli obblighi connessi alla ritenuta posizione di garanzia del F.F. e la verifica del nesso causale, questa anche con riferimento al comportamento eventualmente imprudente del lavoratore, è stata condotta dalla Corte territoriale in maniera giuridicamente non corretta, con un ragionamento esplicativo non congruo, né immune da profili di contraddittorietà .
3.1. La corte territoriale, infatti, ha ritenuto accertata la qualità di preposto dell’imputato, ma non vi ha ricondotto gli obblighi propri di quella posizione, come puntualmente richiamati nella imputazione, vale a dire quello di vigilanza sulla osservanza da parte dei lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e, segnatamente, di quella che prevede l’uso dei presidi collettivi e individuali disponibili per movimentare i carichi in quota.
Trattasi di un obbligo espressamente contemplato dall’art. 19 c. 1 lett. a), D.lgs. 81/08, a mente del quale, per l’appunto, il preposto deve “sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione e, in caso di persistenza della inosservanza, informare i loro superiori diretti”.
3.2. A fronte di tale specifico obbligo e di esiti istruttori incontestabilmente dimostrativi del fatto che, nell’occorso, non era stato utilizzato il presidio previsto (muletto o elevatore), siccome temporaneamente spostato in altro reparto dello stesso stabilimento, ma una ordinaria scala a libro che non raggiungeva l’altezza del piano di lavoro, la Corte capitolina ha apoditticamente affermato, da un lato, l’equivalenza dei due strumenti di lavoro (elevatore e comune scala a libro); dall’altro, attribuito a una scelta improvvida del lavoratore l’accesso alla scaffalatura per raggiungere la quota di lavoro. Così facendo, tuttavia, non ha tenuto in alcun conto la diversa altezza raggiungibile con i due strumenti, né valutato se, per quel tipo di lavorazione, lo strumento di sicurezza aziendale consentisse l’utilizzo dell’uno, piuttosto che dell’altro, limitandosi ad affermare che sul punto non esistevano indicazioni in < <alcun regolamento>>.
Entrambi gli assunti sono fallaci, non solo alla luce dei principi da tempo elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia, ma anche da un punto di vista logico.
3.3. Sotto il primo profilo, infatti, si è già chiarito, in tema di infortuni sul lavoro, che il datore di lavoro può assolvere all’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi (cfr. sez. 4 n. 14915 del 19/02/2019, Arrigoni, Rv. 275577, in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro, nonostante la nomina di un preposto presente al momento dell’infortunio, riconducendo la mancata conoscenza della decisione di ricorrere a modalità esecutive diverse da quelle previste ad una violazione del suo obbligo di controllare personalmente l’andamento dei lavori in cantiere). Ciò costituisce diretto precipitato del principio secondo cui, ai fini dell’individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse, occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio essendo, comunque, generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l’infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte gestionali di fondo (cfr. sez. 4 n. 22606 del 04/04/2017, Minguzzi, Rv. 269972, in cui, in motivazione, la Corte ha richiamato i criteri di ripartizione degli obblighi gravanti sulle singole figure di garanti, all’interno di strutture complesse, come fissati dal Supremo Collegio in Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn ed altri).
Pertanto, l’obbligo del preposto andava, nella specie, commisurato alla previsione del documento di valutazione dei rischi – al quale la corte d’appello omette ogni accenno, limitandosi a parlare genericamente di “regolamenti” – circa l’utilizzo di appositi presidi per la esecuzione di lavori in quota, una volta accertato, per come emerge dalla stessa sentenza, che – nell’occorso – era stata certamente utilizzata una scala a libro, in luogo di un elevatore, e dovendo l’attenzione focalizzarsi non solo sulla quota raggiungibile attraverso i due diversi presidi, ma anche sulla tipologia degli strumenti, a seconda, cioè, che essi fossero o meno dotati di un piano di calpestio che consentisse al lavoratore di procedere all’allestimento senza accedere all’interno della scaffalatura.
Così facendo, la Corte di merito ha trascurato, da un lato, la centralità del documento di valutazione dei rischi, vero e proprio statuto della sicurezza aziendale, nel quale confluisce l’analisi preventiva dei rischi di cui all’art. 28 del D.lgs. 81/08 e la previsione delle misure che il datore di lavoro appronta a garanzia delle singole aree lavorative; dall’altro, il contenuto dell’addebito mosso al F.F. in imputazione, quello, cioè, di non aver vigilato affinché l’A.F. si astenesse dall’esecuzione della lavorazione in assenza del presidio previsto per la movimentazione dei carichi in quota.
3.4. Quanto al comportamento del lavoratore, peraltro, con riferimento alla sua rilevanza, sotto il profilo causale, più volte, in materia di prevenzione antinfortunistica, si è precisato che esso può ritenersi abnorme e idoneo ad escludere il nesso di causalità tra la condotta contestata al garante e l’evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (cfr. sez. 4 n. 15124 del 13712/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT e/ Musso Paolo, rv. 275017); oppure ove sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte dell’agente, oppure vi rientri, ma si sia tradotto in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (cfr. sez. 4 n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222).
Ciò che, nella specie, sembra essere escluso alla stregua della ricostruzione della dinamica dell’infortunio operata dal giudice d’appello, atteso che l’accesso alla scaffalatura da parte dell’A.F. era strettamente collegato alle mansioni affidategli e alla assenza del presidio di sicurezza normalmente utilizzato per lo svolgimento di quei compiti.
3.5. Per le stesse ragioni, deve pure rilevarsi la manifesta illogicità del ragionamento esplicativo del giudizio controfattuale: in base ad esso, l’infortunio si sarebbe ugualmente verificato, anche se per salire sulla scaffalatura l’A.F. avesse utilizzato l’elevatore. Ancora una volta, la fallacia dell’incedere argomentativo deriva dall’erroneità delle premesse da cui muove, per le quali l’infortunio sarebbe derivato dal calpestio della scaffalatura, piuttosto che dall’utilizzo di un presidio che non consentiva il lavoro in quota senza accedere alla scaffalatura stessa, così dimostrando il giudice d’appello di non aver esattamente valutato l’area di rischio garantito dalla norma di sicurezza la cui violazione è stata contestata al F.F..
4. La sentenza deve essere, quindi, annullata limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per nuovo giudizio sul punto, al quale deve essere rimessa anche la regolamentazione delle spese di questo grado di giudizio.
P.Q.M.Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello cui demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità . Fonte: SentenzeWeb