Cassazione Penale sentenza n. 14268 del 28 marzo 2018. Datore di lavoro e legale rappresentante di un’impresa cooperativa.
La definizione di datore di lavoro comprende il legale rappresentante di un’impresa cooperativa.
M.L. propone ricorso avverso la sentenza con la quale la Corte d’appello di Firenze ha riformato nel trattamento sanzionatorio, previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti, la sentenza con la quale il Tribunale di Livorno, il 17 marzo 2015, lo aveva condannato per il delitto di lesioni personali colpose con violazione delle disposizioni sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Il ricorrente ne chiede l’annullamento in relazione a due motivi di doglianza.
Con il primo motivo l’esponente denuncia vizio di motivazione e violazione di legge in riferimento all’affermata qualifica datoriale attribuitagli, frutto di un’indebita applicazione analogica della qualifica al presidente-socio di una cooperativa.
Con il secondo motivo l’esponente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’omesso accoglimento della sua richiesta di sostituzione in appello della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria.
Con successiva memoria il ricorrente ha ulteriormente illustrato i suddetti motivi di doglianza.
2. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
Invero, deve considerarsi che, in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni, i soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di “datore di lavoro”, riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell’unità produttiva, comprende il legale rappresentante di un’impresa cooperativa (Sez. 4, Sentenza n. 32958 del 08/06/2004, Vinci e altro, Rv. 229273); ciò che appare coerente con la concezione sostanzialistica dell’attività lavorativa e del rapporto di lavoro ai fini dell’individuazione della nozione di “datore di lavoro” e di “lavoratore” cui si riferisce la normativa prevenzionistica e, oggi, quella contenuta nel testo unico approvato con D.Lgs. n. 81/2008 (cfr. per qualche esempio Sez. 3, Sentenza n. 18396 del 15/03/2017, Cojocaru, Rv. 269637; Sez. 4, Sentenza n. 12348 del 29/01/2008, Rv. 239251). Quanto al secondo motivo di ricorso, si rammenta che, in tema di sanzioni sostitutive, l’accertamento della sussistenza delle condizioni che consentono di applicare una delle sanzioni sostitutive della pena detentiva breve, previste dall’art. 53 L. n. 689 del 1981, costituisce un accertamento di fatto, non sindacabile in sede di legittimità , se motivato in modo non manifestamente illogico (Sez. 2, Sentenza n. 13920 del 20/02/2015, Diop Mamadou, Rv. 263300); e che la sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, che deve essere condotta con l’osservanza dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., prendendo in esame, tra l’altro, le modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna e la personalità del condannato (Sez. 3, Sentenza n. 19326 del 27/01/2015, Pritoni, Rv. 263558). Nella specie la Corte di merito ha fatto buon governo dei suddetti principi, facendo riferimento al grado della colpa dell’imputato in relazione all’episodio delittuoso.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende, che si stima equo determinare in euro 3.000,00.
P. Q. M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 21 febbraio 2018. (Fonte Corte di Cassazione)