Crollo: responsabilità del progettista, direttore dei lavori e addetto alla sicurezza.
Cassazione Penale, sentenza n. 9942 del 15 marzo 2021 – Crollo di un immobile: responsabilità del progettista, direttore dei lavori e addetto alla sicurezza.
Con sentenza del 26 marzo 2019, la Corte di appello di Palermo, in funzione di giudice del rinvio ai sensi dell’art. 627 cod. proc. pen. (dopo che la Corte di cassazione, con sentenza n. 24458 del 2015, aveva, appunto, annullato con rinvio alla predetta Corte territoriale la sentenza del 16 dicembre 2013 della stessa Corte di appello di Palermo con la quale era stata parzialmente riformata – gravando il M.R. anche della responsabilità civile per il reato di omicidio colposo verificatosi in occasione della verificazione del reato su cui infra – la decisione assunta in data 17 febbraio 2012 dal Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Licata, ed avente ad oggetto, per un verso, l’affermazione della penale responsabilità di M.R. in ordine al solo reato di cui all’art. 449 cod. pen. in relazione all’art. 434, comma secondo, cod. pen., per avere, in qualità di progettista, direttore dei lavori ed addetto alla sicurezza dei medesimi, con colpa consistita nel non avere adeguatamente previsto la situazione di potenziale collasso in cui si trovava l’immobile, per non avere previsto, quale misura di sicurezza il puntellamento dei pilastri in cemento armato si cui si interveniva e prima che si operasse la dismissione delle zone di calcestruzzo ammalorato con profilati proporzionati alla capacità di assorbimento dell’intero sforzo trasmesso dal pilastro, cagionato il crollo di un immobile, denominato “Condominio XXXXXX”, sito in Comune di Licata, località Torre di Gaffe, e la sua conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia, oltre accessori), ha confermato la sentenza emessa dal ricordato Tribunale di Agrigento, Sezione distaccata di Licata in data 17 febbraio 2012.
Avverso detta sentenza ha nuovamente interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio legale fiduciario, il M.R., affidandolo a 6 motivi di impugnazione.
Con il primo motivo parte ricorrente ha censurato la sentenza della Corte di Palermo nella parte in cui in essa non è stata adeguatamente motivata la decisione assunta dalla Corte di rinvio di non disporre la riapertura del dibattimento onde consentire l’esame testimoniale del Consulente tecnico di parte, confermando in tal modo, in sostanza, la decisione sia del Tribunale girgentano, che con ordinanza del 5 luglio 2011 aveva ritenuto non ammissibile la testimonianza del predetto Consulente, sia della Corte di appello, adita in sede di originario gravame, che aveva ritenuto inammissibile il motivo di impugnazione con il quale era stata censurata detta decisione del Tribunale.
Il secondo motivo di ricorso ha ad oggetto la ritenuta violazione di legge commessa dalla Corte di Palermo; la disposizione violata sarebbe l’art. 6 della CEDU, allorchè, dopo avere escluso la possibilità di disporre la riapertura del dibattimento, avrebbe, secondo l’avviso del ricorrente, impedito al medesimo di fornire al giudicante taluni dettagli tecnici e di formulare nuovamente la richiesta di integrazione probatoria.
Il terzo motivo di ricorso concerne il vizio di motivazione ed il travisamento del fatto, per avere la Corte attribuito un determinato contenuto agli elaborati progettuali redatti dall’imputato M.R., tali da comportare l’obbligo di prevedere determinate forme di prevenzione di disastri, laddove il contenuto dell’incarico all’imputato attribuito, stante la sua esclusiva sfera di rilevanza, contenuta nella mera manutenzione, non comportava obblighi del tipo di quelli, invece, ritenuti dalla Corte di appello.
Il motivo formulato per quarto dalla difesa del ricorrente attiene al ritenuto vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un valido nesso di causalità fra la condotta che il ricorrente ha tenuto ed il crollo dello stabile di cui in imputazione.
Il motivo quinto attiene alla affermata carenza, contraddittorietà ovvero illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte di essa in cui è affermata la sussistenza di un adeguato elemento soggettivo in capo al ricorrente, atto alla affermazione della sua penale responsabilità.
Infine, con il sesto motivo è stata formulata istanza dei sospensione degli effetti civili della sentenza della Corte di appello con riguardo al riconoscimento del risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.
Con atti tutti del 10 novembre 2020 le costituite parti civili, ad eccezione di C.M., rassegnavano le proprie conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
Il ricorso, nei termini che saranno qui di seguito chiariti è fondato e, pertanto, lo stesso deve essere accolto, peraltro in conformità con le stesse conclusioni rassegnate dalla competente Procura Generale.
Ritiene il Collegio che, considerata la natura del giudizio che era compito della Corte di Palermo rendere – si trattava, infatti, di giudizio a seguito di annullamento con rinvio della precedente sentenza della Corte panormita pronunziato da questa Corte di cassazione con sentenza n. 24458 del 2015 – è funzionale alla corretta comprensione della presente decisione esaminare prioritariamente i termini del precedente annullamento con rinvio, onde verificare l’adeguatezza o meno della decisione assunta da parte della Corte di rinvio delle modalità di esecuzione del mandato ad essa affidato in sede, di appunto; “cassazione con rinvio”.
Invero la Corte di cassazione, Sezione IV penale, nell’annullare, con riferimento alla posizione dell’attuale ricorrente, la sentenza della Corte di appello di Palermo ha ritenuto fondati il primo e, in parte, l’ultimo dei motivi di impugnazione allora proposti dal ricorrente.
Essi avevano, rispettivamente, ad oggetto, il primo, la violazione di legge ed il difetto di motivazione per non avere la Corte di appello disposto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale al fine di procedere all’esame testimoniale del consulente tecnico della predetta parte una volta che era stata, alla udienza del 26 maggio 2011, modificata la contestazione mossa a carico dell’imputato, ampliando l’ambito della sua colpa specifica anche alla mancata previsione, in sede progettuale, dell’ apprestamento di determinate opere di tipo precauzionale atte ad assicurare la stabilità dei pilastri del manufatto, poi crollato, e l’ultimo la violazione di legge ed il difetto di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui si sono, in essa, ritenuti integrati in capo al M.R. anche gli elementi per la condanna di questo, sia pure ai soli effetti civili, anche per il reato di omicidio colposo, in tal modo ribaltando sul punto la decisione del giudice di primo grado, senza dare adeguatamente conto della ragioni che hanno indotta la predetta Corte territoriale a modificare in senso deteriore per l’imputato la precedente decisione.
Non rilevando siffatto secondo aspetto della vicenda, posto che sul punto la sentenza della Corte di appello di Palermo del 26 marzo 2019 ha, respingendo i ricorsi al proposito a suo tempo formulati dalle parti civili, confermato la sentenza del Tribunale che aveva escluso la responsabilità civile del M.R. quanto all’episodio di omicidio colposo, ma con particolare riferimento al primo motivo di impugnazione (su cui, per quanto sopra riferito, deve esclusivamente focalizzarsi ora l’attenzione) questa Corte ebbe ad osservare che “a seguito della modifica della imputazione ex art. 516 cod. proc. pen. avvenuta alla udienza del 26 maggio 2011, nel corso della quale sono stati contestati all’attuale ricorrente profili di colpa in precedenza non menzionati e tali da comportare una estensione della responsabilità a lui addebitata con ampliamento del thema probandum, era infatti necessario garantire a tutte le parti il pieno esercizio del diritto alla prova rispetto ai nuovi fatti emersi nel processo”.
Poiché tale diritto, prosegue la motivazione della precedente sentenza di questa Corte, doveva essere assicurato negli stessi limiti previsti per la fase preliminare alla apertura del dibattimento, la mancata ammissione della testimonianza del consulente tecnico “ha precluso all’imputato la facoltà di avvalersi del contributo conoscitivo e valutativo espresso dal proprio consulente, nemmeno essendosi accolta (…in fase di gravame… ndr) la richiesta di rinnovazione del dibattimento avanzata in grado di appello, dove la questione era stata riproposta”.
Si conclude, sul punto, la sentenza n. 24458 del 2015 di questa Corte con il rilievo che “la motivazione espressa al riguardo nella sentenza impugnata – che da un lato, ha ritenuto inammissibile l’istanza (…di integrazione probatoria… ndr) per la sua genericità e, dall’altro, non necessario ed utile l’approfondimento richiesto – rivela chiaramente che non sia stata colta la valenza della richiesta formulata, nella prospettiva del diritto alla prova”.
Così compendiate le ragioni per le quali questa Corte ha ritenuto di dovere annullare con rinvio la precedente decisione assunta dalla Corte di appello di Palermo, si rileva come il medesimo Ufficio, adito in sede di giudizio di rinvio, non abbia compiutamente dato corso al principio di diritto sostanzialmente espresso dalla Corte di legittimità con la citata sentenza n. 24458 del 2015 ed ai suoi presupposti logici.
Infatti, la Corte palermitana, che pure aveva dato atto del fatto che in sede di legittimità si fosse osservato che “la mancata audizione del consulente tecnico della difesa aveva certamente pregiudicato il diritto di difesa dell’odierno appellante”, ha, sul punto, sostanzialmente reiterato lo stesso errore metodologico, ma anche giuridico, in cui erano incorsi, in successione, sia il Tribunale di Agrigento, Sezione distaccata di Licata, che la diversa Sezione Corte di appello allora investita della questione.
Essa, ha, infatti, considerato – sebbene ciò non sia stato immediatamente esplicitato ma il rilievo pare logicamente insito nel ragionamento operato dalla Corte – la richiesta di prova siccome formulata dalla difesa dell’imputato ai sensi dell’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., ritenendo, pertanto, di non disporne l’espletamento, visto l’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., ritenendo la stessa non assolutamente necessaria.
In ciò, tuttavia, si annida l’errore di ricostruzione giuridica del contenuto della sentenza con la quale la Corte aveva, proprio in ragione della mancata ammissione della predetta richiesta istruttoria, annullato il precedente giudizio;
posto che, come pianamente esposto nel passo sopra riportato della sentenza emessa in occasione del precedente annullamento con rinvio, la Corte aveva chiaramente richiamato i principi in merito al risorgere, pur nel corso della fase dibattimentale del procedimento, dei diritto a “difendersi, provando” che compete alla parte imputata laddove, a seguito della modificazione dei termini della contestazione ad essa mossa, la stessa debba difendersi rispetto a profili “di fatto” nuovi o comunque ulteriori rispetto a quelli che erano delineati nell’originario libello accusatorio sulla base del quale il giudizio già era stato introdotto.
In tal caso, infatti, i limiti di ammissibilità della prova non sono quelli propri dell’art. 603 cod. proc. pen. ma quelli indicati, per la fase di originaria ammissione delle prove in dibattimento, dall’art. 190, comma 1, cod. proc. pen., cioè il fatto di trattarsi di prove vietate per legge, ovvero di prove manifestamente superflue o irrilevanti.
Elementi questi certamente non ravvisabili, ontologicamente, per ciò che attiene all’esame del Consulente di parte, non potendo essere questa, già in linea astratta, considerata una prova vietata dalla legge, né, in termini concreti quanto allo specifico caso in esame, posto che, avendo espressamente la Corte di appello preso in considerazione nel motivare la propria decisione la relazione di consulenza tecnica redatta per conto dell’imputato dal suo Consµlente, ing. Di M., (relazione la cui, pur disposta, acquisizione agli atti non vale certo a surrogare – stante il principio della immediatezza ed oralità che in ampia parte informa il modello processuale introdotto con il codice di rito del 1989 – l’espletamento della prova testimoniale, al cui svolgimento neanche deve ritenersi ostativo il fatto – peraltro non evocato come tale neppure nella sentenza della Corti di appello ora in scrutinio – che il predetto consulente fosse, per effetto di una patologia invalidante, non più in condizione di testimoniare, avendo, considerata tale contingenza, la difesa dell’imputato indicato quale testimone, in luogo dell’ing. Di M., un collaboratore dell’originario Consulente), essa ha considerato non irrilevante, sebbene non decisivo in quanto contrastato dalla Corte territoriale, l’apporto tecnico da questo offerto ai fini del decidere.
Deve, in definitiva, rilevare questa Corte che, con la sentenza ora impugnata la Corte di Palermo ha violato il principio di diritto che era stato, in precedenza, formulato da questa Corte con la sentenza n. 24458 del 2015, allorchè essa aveva evidenziato che la richiesta di ammissione della prova testimoniale formulata dalla difesa dell’odierno ricorrente già di fronte al giudice di primo grado e, successivamente, riprodotta in sede di gravame, non doveva essere esaminata dalla Corte distrettuale alla stregua dei criteri di ammissibilità di cui all’art. 603 cod. proc. pen., ma alla stregua di quelli desumibili dal combinato disposto degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen. per la fase di introduzione del giudizio dibattimentale, essendo la predetta istanza istruttoria giustificata dall’avvenuta modificazione in corso di giudizio di un aspetto del fatto contestato all’odierno ricorrente, tale da riattivare il circuito procedimentale volto all’esercizio del diritto di difesa attraverso l’assunzione in contraddittorio delle prove richieste.
Come questa Corte ha, infatti, chiarito il giudice del rinvio è tenuto ad uniformarsi non solo al principio di diritto, ma anche alle premesse logico- giuridiche poste a base dell’annullamento, non potendo nuovamente valutare questioni che costituiscono i presupposti della pronuncia sui quali si è formato il giudicato implicito interno (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 14 marzo 2018, n. 11641); predicato questo attribuibile alla identificazione dei criteri da utilizzare al fine di procedere alla ammissione o meno della prova testimoniale a suo tempo dedotta dal M.R., in quanto si tratta del presupposto logico sulla base del quale la precedente sentenza della Corte di Palermo del 16 dicembre 2013, che tali criteri aveva erroneamente applicato, era stata da questa Corte di legittimità annullata con rinvio.
Parimenti annullata deve, pertanto, essere anche la sentenza ora impugnata, con integrale assorbimento degli altri motivi di impugnazione formulati dalla difesa del prevenuto stante la pregiudizialità logica rispetto ad essi del motivo di ricorso accolto, con ulteriore rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo per nuovo giudizio, il cui ambito è comprensivo anche delle disposizioni da assumere – riguardo agli interessi civili – in merito al regolamento delle spese della presente fase giudiziale.
P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo.