Falsi certificati di giudizio di idoneità alla mansione
Cassazione Penale, sentenza n. 25271 del 1° luglio 2021 – Falsi certificati di “giudizio di idoneità alla mansione.
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Brescia riformava parzialmente in senso favorevole al reo, limitatamente alla dosimetria della pena, la sentenza con cui il tribunale di Cremona, in data 24.1.2018, aveva condannato B.F. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato ex artt. 81, cpv., 476, 482, c.p., in rubrica ascrittogli.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, sulla configurabilità del reato; 2) vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
2.1 Con requisitoria scritta del 11.12.2020, depositata sulla base della previsione dell’art. 23, co. 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, che consente la trattazione orale in udienza pubblica solo dei ricorsi per i quali tale modalità di celebrazione è stata specificamente richiesta da una delle parti, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione chiede che il ricorso venga rigettato.
3. Il ricorso va dichiarato inammissibile, essendo sorretto da motivi manifestamente infondati e reiterativi di doglianze già disattese puntualmente dalla corte territoriale, con la cui motivazione il ricorrente, in realtà, non si confronta.
4. Come si evince dalla lettura della motivazione della sentenza oggetto di impugnazione, non contestata dal ricorrente sotto il profilo della ricostruzione dei fatti storici, si procede nei confronti del B.F., per il reato di cui agli artt. 476 e 482, c.p., avente ad oggetto sei fotocopie riproducenti altrettanti certificati di “giudizio di idoneità alla mansione”, a firma del medico del lavoro, dott. BA., relativi alle visite mediche periodiche annuali di altrettanti lavoratori dipendenti della società “E. S. s.r.l.”, di cui l’imputato era il legale responsabile, certificati in realtà inesistenti in originale, posto che, come affermato dallo stesso BA., la data in essi riportata (26.3.2014) era successiva al momento (26.3.2011) in cui era cessato il suo rapporto professionale con la suddetta società.
“A richiesta del tecnico A.S.L.”, portatosi per un controllo presso il cantiere aperto dalla “E, S. s.r.l.” in Cremosano, a seguito di un incidente sul lavoro con esito mortale di cui fu vittima il lavoratore M.B., di esibire la documentazione allegata al Piano Operativo di Sicurezza, “il B.F. non produceva gli originali (mancanti), né forniva spiegazioni circa il possesso delle fotocopie dei falsi certificati”, tra cui vi era quello relativo al M.B..
4.1. La tesi difensiva è incentrata sul valore da attribuire agli atti di cui si discute.
Ad avviso del ricorrente, infatti, si tratterebbe di atti che non devono essere obbligatoriamente allegati al Piano Operativo di Sicurezza, per cui, in assenza della individuazione di un risultato concreto in favore del B.F. o dell’impresa, raggiungibile attraverso la creazione di tali atti, di cui non si comprende la funzione, essi vanno considerati alla stregua di semplici fotocopie esibite ed usate come tali dall’imputato, con condotta penalmente non rilevante.
Così impostata la questione di diritto, i rilievi difensivi appaiono, come si è detto, manifestamente infondati.
Quel che rileva nel delitto di falso di cui si discute, infatti, è la natura pubblica dell’atto artificiosamente creato, in rapporto alla funzione che esso è chiamato ad assolvere.
In questo caso non vi sono dubbi sulla natura di atti pubblici dei giudizi di idoneità alle mansioni rinvenuti in forma di semplici fotocopie dal tecnico del servizio di prevenzione della A.S.L., recatosi nel cantiere della “E. S. s.r.l.”
L’art. 41, co. 2, del Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro (d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni), in tema di sorveglianza sanitaria, infatti, prevede l’effettuazione di una serie di visite mediche finalizzate ad accertare l’idoneità dei lavoratori allo svolgimento della mansione specifica cui sono destinati.
Sempre la medesima norma, inoltre, statuisce espressamente: “Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica: a) idoneità; b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni; c) inidoneità temporanea; d) inidoneità permanente.
Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro” (art. 42, co. 6 e 6 bis).
Orbene, non vi è dubbio che, potendo, i documenti contenenti il giudizio di idoneità alla mansione, redatto obbligatoriamente in forma scritta ai sensi dell’art. 41, comma 6-bis, T.U.S.L., entrare a pieno titolo all’interno di un procedimento amministrativo definito dal citato d.lgs.81/08, quale il ricorso avverso il giudizio di idoneità di cui all’art.41, c. 9, del medesimo testo unico, essi vanno considerati sin dalla loro formazione come documenti di fede pubblica.
Tale procedimento, giova evidenziare, si concretizza nel ricorso, da parte del lavoratore o del datore di lavoro, all’ organo di vigilanza, per ottenere la rivalutazione del giudizio di idoneità. L’organo di vigilanza (del Servizio Sanitario Nazionale, ove la normativa non disponga diversamente) è l’autorità responsabile del procedimento e dell’emissione del relativo provvedimento di conferma, modifica o revoca.
Ed invero, secondo l’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di atto pubblico rilevante ai fini dell’integrazione dei reati in materia di falsità in atti, anche gli atti cosiddetti interni, ovvero quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, nonché quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale – conforme o meno allo schema tipico – ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Rv. 249858; Cass., Sez. 6, n. 11425 del 20/11/2012, Rv. 254866; Cass., Sez. 5, n. 38455 del 10/05/2019, Rv. 277092).
Pertanto la falsa formazione mediante fotocopie degli atti di cui si discute, integra il delitto di falsità materiale in atti pubblici contestato al B.F., posto che gli atti esibiti da quest’ultimo al tecnico della A.S.L. avevano l’apparenza dell’originale di un atto pubblico, in realtà inesistente (cfr. Cass., Sez. U, n. 35814 del 28/03/2019, Rv. 276285), indipendentemente da quale fosse la finalità concreta perseguita dall’imputato nel mostrarli al pubblico ufficiale.
5. Inammissibile appare il secondo motivo di ricorso, in quanto generico ed involgente censure sul merito del trattamento sanzionatorio, non scrutinabili in sede di legittimità, avendo la corte territoriale, con diffusa motivazione, sottolineato la mancanza di elementi positivi da valorizzare in favore del reo, a fronte di motivi di appello sul punto della entità della pena e del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti ex art. 62 bis, c.p., generici e contraddittori.
Siffatta decisione risulta conforme all’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Rv. 270986).
6. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Fonte: Cassazione Web